(19/8/2009 11:48) 

VinoCotto occhju de gallu


di Corrado Incerti
A dispetto della sua gloriosa storia più che bimillenaria e delle migliaia di botticelle custodite con cura e amore nelle cantine marchigiane, sul finire del Novecento il vino cotto del Piceno venne dichiarato inesistente. Peggio ancora, bollato come illegale. Un fuorilegge. Una norma del 12 febbraio 1985, infatti, ne vietava espressamente la commercializzazione, non considerandolo un vino, ‘il cui nome è riservato al prodotto ottenuto dalla fermentazione alcolica totale o parziale dell’uva fresca o del mosto d’uva’. Il vino cotto delle campagne di Macerata e di Ascoli Piceno, tra i fiumi Tronto e Potenza e tra i monti Sibillini e il mare Adriatico, viene invece prodotto con cottura del mosto di uve locali, a fuoco diretto in caldaie di rame. Ma un suo lontano cugino, il siciliano Marsala, scaldato con tecniche di lavorazione simili, era del tutto legale e poteva fregiarsi dell’ambito titolo di vino. Un guazzabuglio legislativo.
Lunghe battaglie di produttori e politici locali portarono, dopo 15 anni dal divieto, a un primo successo: un decreto ministeriale del 18 luglio 2000 inserì il vino cotto nell’elenco nazionale dei prodotti tradizionali. Dunque, poteva venire commercializzato. Il nome ‘vino’ usato in quell’elenco per il cotto marchigiano, tuttavia, non faceva riferimento al ‘nomen juris’, al vino vero e proprio secondo la normativa vigenti nazionale ed europea, bensì all’uso popolare, diffuso e consolidato della parola vino riferita a quel prodotto. Vale a dire, soltanto alla tradizione. Non bastava. Per questo motivo, il 20 aprile 2004, sostenuta da amministratori, Camere di Commercio e consorzi agricoli locali, venne costituita a Loro Piceno, ridente Comune in provincia di Macerata, da sempre considerato la capitale del vino cotto, l’Associazione dei Produttori di Viccotto (in marchigiano), con lo scopo dichiarato di elaborare uno specifico disciplinare di produzione e di far raggiungere al loro prodotto l’agognata Dop, la denominazione di origine protetta. Cioè, di farlo rientrare nella nobile famiglia dei Vini, nella quale ha sempre avuto storicamente un suo ruolo di grande rilievo.
A presiedere l’Associazione del Viccotto è sempre stata eletta, sino alla sua prematura scomparsa di un anno fa, la lorese Alma Rossini, per tutti Cicì, la cui famiglia produce vino cotto da più di un secolo, sin da quando il bisnonno Giovanni decise, verso il 1880, di costruire una casa di campagna a Loro Piceno in occasione del matrimonio del figlio Federico, notaio a Roma, con studio in via Nazionale, e a Macerata.
“Nelle cantine della nostra casa”, ricorda Alda Correra, figlia di Alma, “le botticelle di vincotto non sono mai mancate. Le più pregiate venivano riempite in occasione della nascita di qualche bambino e aperte per la festa della sua Comunione o, più spesso, nel giorno del suo matrimonio. Il rito di famiglia poi, come per gli altri Piceni, era quello di fare al bimbo il bagnetto nel vino cotto, per rinforzarne spirito e corpo. Anch’io, come le mie sorelle Barbara e Simona, sono stata ‘battezzata nel viccotto’.
Al quale, tra le altre cose, vengono attribuite forti proprietà antiossidanti e la capacità di combattere i radicali liberi e prevenire malattie tumorali e cardiovascolari, come risulta da uno studio pubblicato negli Stati Uniti dal marchigiano professor Dino Mastrocola.
Alma Rossini, che dieci anni fa iniziò a ristrutturare la dimora di campagna chiamata poi Villino Sorbatti (il cognome di famiglia), gli annessi magazzini e cantine e un vicino Casale sino a trasformarli nella Country House Borgo Sorbatti, con 12 eleganti camere matrimoniali, parco, piscina e azienda agricola a pochi chilometri, ha sempre tenacemente promosso questo vino ‘sconosciuto’.
Assieme agli amministratori di Macerata, Ascoli e del Comune di Loro Piceno, ha portato il vino cotto alla ribalta dei più importanti eventi enogastronomici italiani: il Salone del Gusto di Torino nel 2004 (dove il vino è stato molto apprezzato dal principe Carlo d’Inghilterra), Vinitaly di Verona nel 2005, poi la Bit di Milano, Cibus di Parma sino alla degustazione guidata del 16 giugno scorso al Vinoforum di Roma. Il vino cotto piceno si è così imposto all’attenzione dei più affermati enologi del nostro Paese.
Borgo Sorbatti si trova poco fuori dal centro storico medievale di Loro Piceno, i cui palazzi nobiliari e padronali, che fiancheggiano le caratteristiche vie del paese, hanno sviluppato una particolare e interessante architettura in funzione della pigiatura dell’uva e della bollitura del mosto. Ogni palazzo esibisce infatti le sue cantine con le voluminose caldaie in rame, avvolte da una struttura in muratura, il ‘caroenum’ dei romani, sotto la quale si apre lo spazio per la legna da ardere. Tutti oggetti presenti nella ‘Mostra permanente delle attrezzature e degli utensili per il vino cotto’, allestita nei suggestivi ambienti adiacenti al chiostro della chiesa di San Francesco, sulla cima della verde collina del paese, che raduna botti, canestre in vimini, bigoncette, pigiatrici manuali, torchi, caldaie, ramaioli, schiumarole e ‘mbottatore’, grandi imbuti con i quali si riempiono le botti con il vino ancora caldo. E il vino è, ogni agosto, il protagonista della ‘Sagra del vino cotto’ di Loro (quest’anno dal 20 al 23 del mese), nata nel lontano 1948 come Festa dell’Uva e poi permanentemente trasformata nell’unica Sagra italiana di questo nettare forte, limpido e dal profumo fruttato, dal sapore in perfetto equilibrio tra acidità e dolcezza, che ricorda i Porto o i Marsala invecchiati e che, per il colore giallo ambrato con tendenza a sfumature color nocciola, in gergo marchigiano porta da secoli il nome di ‘occhju de gallu’, occhio di gallo.

Una tradizione che si tramanda da più di tremila anni
Caratterizzato da un sapore che può ricordare il più famoso vino passito, il vino cotto si ottiene da una tecnica tradizionale che alcuni fanno derivare fin dagli antichi tempi dei Piceni (X sec a.C.), altri invece dai Greci. Una volta pigiata l'uva si mette il mosto ottenuto in una caldaia di rame dove viene fatto scaldare (cotto) a fuoco vivo fino a quando l'acqua che evapora lascia la capacità della caldaia a metà di quella iniziale. La ricetta tradizionale vuole l’aggiunta di una mela cotogna ogni quintale di mosto allo scopo di aromatizzare la bevanda. Una volta evaporata l'acqua, il mosto concentrato viene rimboccato in caratelli di rovere dove è già presente quello vecchio degli anni precedenti: fondamentale a questo punto è un lento e lungo invecchiamento, evitando forti ossidazioni che potrebbero eliminare il suo profumo fruttato. In cucina il vino cotto viene utilizzato nella preparazione di molti piatti e dolci tipici e, soprattutto, come liquore di fine pasto, generalmente offerto insieme ai dolci tradizionali come ciambelline, biscotti secchi all’anice e alle mandorle. Il vino cotto si può acquistare, fra le altre, presso l’azienda Tiberi David, l’azienda Forti Simone, l’azienda Catalini Sergio e l’azienda Massimo Germani. Il vino Picenum dell’azienda Terre di San Genesio ha ottenuto l’eccellenza nella guida Le Marche da Bere realizzata da Ais Marche insieme a PrimaPagina Editore.

Il ‘Vinum defrutum’ nella storia
Nel 191 a.C. Plauto, nella commedia “Pseudolus”, include il vino cotto, ‘vinum defrutum’, cioè bollito, tra le migliori bevande da mescersi in un lauto banchetto. Plinio il Vecchio, nella sua ‘Storia naturale’, lo annovera tra le più ricercate bevande prodotte in Italia e ne descrive il metodo di preparazione, che è ancora quello di oggi: il mosto viene scaldato nelle caldaie con fuoco diretto di legni grossi per farlo bollire piano piano per 12 ore e più, fino a farne evaporare un terzo; poi, ancora caldo, viene messo in botti di rovere a fermentare per 18 mesi e a invecchiare per anni. Citato anche da Catone il Censore, il vino cotto continua per secoli a mantenere la sua fama di prodotto di eccellenza. Nel ‘500, Sante Lancerio, bottigliere di Papa Paolo III, menziona il vino cotto dell’area Picena, ne esalta la bontà e la qualità e lo eleva alla dignità del rito sacrificale della Santa Messa. Alla fine del ‘700, viene esportato in barili su navi in partenza dal porto di Ancona per molti paesi d’Europa. In tempi più recenti, viene esaltato in diversi dizionari di gourmet e dagli scrittori-giornalisti Guido Piovene e Mario Soldati.

Le donne di casa Sorbatti
La storia della famiglia Sorbatti è legata a doppio filo con il vino cotto. In particolare è legata alla figura di due donne, Alma e Alda, madre e figlia, imprenditrici e pioniere, appassionate promotrici
di una tradizione e di un territorio dove questo vino è una ricetta segreta tramandata fin dall’antichità. Alma Rossini, da tutti conosciuta come Cicì, è
stata a lungo la presidente dell’ ‘Associazione
del Viccotto’. Una donna tenace, che per anni
aveva viaggiato in lungo e in largo per tutta l’Italia, promuovendo il vino cotto nelle manifestazioni più importanti a livello nazionale: il Salone del Gusto a Torino, il Vinitaly a Verona, La BIT a Milano, Cibus a Parma. A lei si deve il restauro dei vecchi magazzini e la creazione di Borgo Sorbatti, e a lei si devono i contatti e le preziose collaborazioni che l’associazione ha portato avanti nel tempo facendo conoscere e apprezzare questo vino anche fuori regione. Dopo la sua prematura scomparsa, oggi fa le sue veci la figlia Alda, che continua a portare avanti l’azienda con la stessa tenacia
che ha caratterizzato le donne della famiglia,
di generazione in generazione. Questo credendo
fortemente nel turismo rurale e nella convinzione che ‘le parti nostre sono veramente belle e devono essere visitate’ e i prodotti locali valorizzati.